La panchina
C’è un articolo oggi, su L’Arena, il quotidiano della mia città. Racconta di un uomo, Matteo, 43 anni, che è riuscito a contattare e a incontrare la sua mamma biologica che lo aveva lasciato subito dopo il parto, all’ospedale di Negrar. Matteo ha avuto una vita piena, una famiglia che lui considera la sua vera famiglia, che lo ha amato ed educato, e ha viaggiato tanto. I suoi genitori adottivi sono mancati da poco e lui ha deciso di rintracciare chi lo ha dato al mondo. E lei? La donna lo aveva abbandonato perché non avrebbe potuto dargli un futuro. Il padre naturale non voleva saperne, lei, brasiliana, doveva tornare nel suo paese e lì per Matteo non ci sarebbe stato futuro.
E poi mi sono concentrata su una cosa che non c’entra assolutamente nulla con tutto ciò. La panchina su cui i due sono stati ritratti di spalle, mentre parlano, assorti, come se non esistesse nient’altro.
La foto che vedete è uno screenshot della pagina de L’Arena. Io non so voi ma ci trovo un mondo dentro questa immagine. La panchina, protagonista ignara di un incontro che determina e determinerà l’esistenza di queste due persone, sembra essere stata forgiata apposta. Guardate bene le gambe della panchina. Sembrano sostenerli e nello stesso tempo tenerli in un palmo, in modo lieve, delicato.
Un parco, una panchina. Niente di più neutro, niente di più banale. Ed è lì, quando pensiamo che le cose siano banali, che non lo sono.
Quando ero adolescente ho passato almeno un terzo della mia vita sulla panchina del parco vicino casa (a vedere gli altri che amoreggiavano, io no). Adolescenza a parte, ho sempre amato le panchine. Ci vedo della poesia. Penso alle persone, alle loro vite, dalla signora annoiata che porta a spasso il cane, alle badanti che si incontrano portando a spasso i nonnini, ai clochard che lì provano a dormirci (nonostante i divisori). Quella in testa a questo articolo è ritratta da me al Parco Giardino Sigurtà. In assoluto la mia preferita.
Le panchine sono testimoni silenti che invitano a sostare, a pensare, a riflettere. Sostare è questo: fermarsi un attimo, una parentesi dal viaggio. Forse per guardare un po’ indietro, o forse per per guardare avanti. Tra il passato e il presente, le panchine sono la zona neutra di vite sospese, il “qui ed ora”.
In questa fotografia ci vedo questo. Un passato e un futuro, stretti insieme dall’istantanea del presente. In un parco, su una panchina.
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