Io mi salverò (una riflessione per il 25 novembre)
Sogno un mondo dove la giornata del 25 novembre non esiste. Dove non c’è bisogno di gesti pubblici e #hashtag per svegliare le coscienze.
Ma questa ancora è utopia, perché la violenza psicologica e fisica, figlia della sottomissione al maschio (tanto cara ancora oggi ad alcune culture), è tema di oggi.
E la sfida oggi è un’altra, mica i sogni.
La sfida oggi è educare. Gli uomini (bambini, ragazzi, compagni, mariti e padri di domani) a non considerare le donne come un’appendice di loro stessi, un’altra specie servile alla riproduzione e scontata nell’occuparsi di loro e delle faccende domestiche; e le donne (bambine, ragazze, compagne, mogli e madri di domani) a non considerarsi un’appendice degli uomini, un’altra specie utile a dare alla luce figli e ovvia nell’occuparsi dell’uomo e delle faccende domestiche.
La sfida oggi è educare a essere persone libere, indipendentemente dall’essere uomo o donna. Di ragionare, di pensare, di decidere, di scegliere per sé, nel rispetto dell’altro o dell’altra.
A cosa serve però educare l’uomo se è già la donna a sottostimarsi, a chinare il capo, a non considerarsi abbastanza, a ragionare, pensare, decidere, scegliere per sé, a credere di non meritare di più e di meglio?
Ci si rivolge spesso e sempre più agli uomini, il 25 novembre. Giusto. Perché sono loro a doverlo capire, perché sono loro a dover rispettare e perché la sottomissione, almeno qui e almeno oggi, non è contemplata: è ora di evolversi, ché dalle caverne siamo usciti qualche migliaio di anni fa, oramai. O forse no.
Seguitemi, e prendete la torcia.
Non riuscirò mai a capire cosa scatta nelle profondità della mente di una donna che non solo accetta tutto questo, ma che anche lo giustifica. Perché sono così contorte e oscure le grotte della psiche, magari ben agghindate da retaggi culturali, religiosi e sociali, dove il padre-padrone diventa mito da adorare e onorare; dove le sue botte e le sue denigrazioni vengono accettate “perché lui è fatto così” o peggio “perché è lui l’uomo“. E magari “la colpa è mia perché l’ho provocato/non dovevo“, e dopotutto mi ama, ha tanti pregi, questa non è violenza. Solite scuse.
Quando ci si abitua al buio, è già la fine. Sono i punti delle grotte più pericolosi in cui non bisogna inoltrarsi, perché ci si perde facilmente ed è sempre più difficile trovare l’uscita, e l’aria e il sole non si ricordano nemmeno più come sono. Ma le indicazioni e fili d’Arianna ci sono: li seminano sulla strada associazioni, amicizie, i familiari.
Attenzione, perché dentro la grotta l’ossigeno scarseggia come sull’Himalaya, e al cervello sembra tiri brutti scherzi. Si chiamano allucinazioni: i consigli delle amiche? Sono invidiose, non capiscono. I familiari? A loro non è mai piaciuto. E allora ecco che dal cunicolo di grotte non si esce più, perché è tutto il mondo a sbagliarsi, non capisce e non vede, nessuno lo conosce come lo conosco io e “solo io posso salvarlo“.
Mi fermo qui. Non ho l’istinto della crocerossina: perdo subito la pazienza. Perché un uomo per salvarsi deve prima volerlo; e per volerlo deve prima capirlo e non vergognarsi a chiedere aiuto. Sono pochi, davvero troppo pochi gli uomini che lo fanno. Peccato, sono i migliori.
Però io lo so cosa succede nel cuore del buio, ragazze. L’ho visto: annientiamo noi stesse, la nostra capacità di ragionare, di pensare, di decidere, di scegliere per noi. Ci abituiamo alla miseria della vita non considerando che invece possiamo davvero avere di meglio.
A quel punto lì si vive solo di allucinazioni. E se sopravviviamo, non siamo felici. Arranchiamo e passiamo così tutta la vita, magari sperando nell’happy ending.
Ma alla fine il lieto fine non c’è, se non lo scriviamo noi. Nessuna favola. Siamo così corrose dentro che la speranza fa cortocircuito e questo ci fa ammalare.
Questo è quello che so. E so anche che finché non sarà la donna a voler salvarsi, a considerarsi abbastanza, a credere in sé stessa, e a convincersi che merita il meglio, ci sarà sempre un 25 novembre da ricordare.
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